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Lo sguardo verso il basso

Nei giorni in cui Ezechiele si alza per rivolgere al popolo inattese parole di speranza, la discendenza di Davide sembra essere ormai un albero reciso, destinato alla sterilità: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà» (Ez 17,22-23). Il popolo esiliato in Babilonia non ha più né terra, né tempio, né fiducia nel futuro. Della storia gloriosa di Israele non rimane che un ceppo sterile, residua e dolorante memoria di quelle promesse che l’Altissimo ha saputo suscitare attraverso la liberazione dall’Egitto e il dono della terra. In questo passaggio storico così triste e rassegnato, è il Signore stesso a imprimere la sua capacità visionaria alla voce del profeta, per ricordare al popolo che proprio «lungo la notte» (salmo responsoriale) la speranza impara a dilatare i suoi confini. Questo è il compito della profezia: leggere ogni momento storico alla luce della fedeltà di Dio, rimettendo foglie e frutti sui rami dei nostri alberi rinsecchiti, anche quando la sterilità sembra essere il solo, inevitabile destino. Il Signore Gesù attinge parole ed esempi dallo stesso immaginario «botanico» usato dalla voce profetica delle Scritture. Per spiegare la paradossale logica del regno di Dio, che si propone senza mai imporsi, il Maestro decidere di volgere in basso il suo guardo: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28). Indugiando in una meticolosa descrizione dei passaggi con cui il seme evolve fino a trasformarsi in una pianta, Gesù prova a focalizzare l’attenzione su un avverbio che scardina ogni moralismo e distrugge ogni volontarismo: «spontaneamente», una parola che nella lingua greca risuona ancora più divina: «automaticamente» (4,28). Nessuno è capace di osservare e registrare i movimenti della natura, impercettibili alla macchina da presa della nostra capacità di misurazione. Tuttavia, la natura si muove, si gonfia e si affloscia, compiendo i suoi ritmi circolari di morte e rinascita in un modo tanto effettivo quanto appariscente. Allo stesso modo procede la crescita della vita eterna in noi: per quanto possiamo preoccuparci o sforzarci, il suo sviluppo non sta nelle nostre mani e non dipende certo dalle nostre misurazioni. La vita di Dio, ricevuta come dono nel battesimo in Cristo, matura secondo sue logiche interne, che – fortunatamente – sfuggono alla nostra ansia di prestazione e al nostro bisogno di verifica. Il Signore Gesù ci costringe ad assumere la prospettiva delle Beatitudini per sospendere ogni (troppo) facile giudizio: «(Il Regno di Dio) è come un granello di senape che, quanto viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (Mc 4,30-32). Certo, la logica di un Cristo che regna e governa la storia sul trono della croce, a partire dall’impalpabile presenza di un sepolcro vuoto, è davvero un minuscolo seme gettato nella terra del mondo e della storia. Eppure, è tutto ciò che ci serve e ci basta per poter affrontare ogni piccolo passo della vita, «pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore» (2Cor 5,6). Quando la mèta è chiara e la forza precede ogni sforzo, il viaggio non può più generare alcuna angoscia. Anzi, può essere affrontato nella pace e nell’apertura agli altri, ben sapendo che viviamo tutti «nella fede e non nella visione» (5,7) e siamo una terra amata e fecondata, prossima a germogliare.

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Essere discepoli generosi

Il profeta Elia sembra non avere dubbi su se stesso e per questo risponde all’appello del Signore in modo franco e diretto: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1Re 19,14). Per il profeta Elia le cose sembrano chiare, semplici, evidenti e le sue scelte, come quelle di sterminare i sacerdoti di Baal senza alcuna pietà, gli paiono giuste e scontate. Non è così secondo l’insegnamento del Signore Gesù nel discorso della montagna, ove il Maestro ripercorre quanto la tradizione ha trasmesso riproponendo ognuno degli aspetti senza accontentarsi semplicemente di ripetere e di ribadire. Si potrebbe definire l’insegnamento del Signore Gesù come una ermeneutica a spirale che, quasi impercettibilmente, dilata l’interpretazione della Torah a partire da un’accoglienza generosa del reale con tutta la sua ricchezza e la sua complessità. Non basta lo «zelo» di cui si vanta Elia per essere fedeli al cuore di Dio senza mai smettere di lasciarsi interrogare dalla relazione con gli altri. È necessario maturare nella capacità di andare sempre un po’ più lontano per accogliere la sfida della fedeltà in modo generoso e ampio. Invece di accontentarsi, come sembra fare Elia, di avere ragione e di essere dalla parte della ragione, il Signore Gesù ci chiede di essere discepoli generosi nella disponibilità ad ascoltare la vita e soprattutto a regolare le nostre reazioni a partire da un’eccedenza di dono liberato dalla smania di giudicare e catalogare gli altri. Il modo in cui il Signore Gesù commenta la Torah e la ripropone è fondamentalmente personale: «Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo…» (Mt 5,29). Circa poi le relazioni fondamentali della vita, di cui quella matrimoniale è certamente il simbolo più forte, si potrebbe dire che invece di consigliare di andare dall’avvocato – civile o canonico – il Signore Gesù chiede di guardarsi dentro e di scegliere in modo non scontato, ma drammatico: «chiunque ripudia la propria moglie… la espone all’adulterio» (5,32). È nel profondo del nostro cuore che siamo chiamati a usare il coltello della decisione contro tutto ciò che ci imprigiona interiormente in una «Geènna» (5,30) che può essere talora ciò che ci illudiamo sia «zelo per il Signore» (1Re 19,14). Metterci alla scuola delle beatitudini significa metterci in ascolto del cuore: del nostro prima di tutto, ma anche di quello degli altri. Il ritmo del discorso della montagna è puntellato da una constatazione che si fa esortazione: «Avete inteso… Ma io vi dico»! La forza di questo metodo ermeneutico si potrebbe riassumere in un invito ad ascoltare sempre più ampiamente e profondamente, imparando che la vita non è riconducibile a un semplice precetto da osservare o trasgredire, ma a un processo da vivere giorno dopo giorno con umiltà e una buona dose di meraviglia. Forse a Elia mancava un po’ di meraviglia, che invece il Signore Gesù coltiva e ci chiede di coltivare con lo stesso zelo con cui i bambini scoprono il mondo attraverso i loro giochi di meraviglia.

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Il rumore della pioggia

l rischio più grande nella lettura del Discorso della Montagna, che ci accompagna in questi giorni e rappresenta sempre un’occasione propizia per valutare il nostro cammino di conversione alla sapienza del Vangelo, sarebbe quello di accogliere le parole del Signore Gesù con la stessa modalità con cui gli scribi e i farisei continuavano a predicare le parole che Dio aveva rivolto al popolo attraverso la mediazione di Mosè. Al contempo, sarebbe assai distante dallo spirito del Vangelo lanciarsi in una sorta di corsa per superare la «giustizia» (Mt 5,20) degli scribi e dei farisei con una «giustizia» che rischierebbe, in tal caso, di assomigliarle fin troppo. Le parole che il Signore Gesù pronuncia sul monte, e con cui cerca di comunicare il cuore del suo messaggio che animerà le sue scelte fino al dono generoso e inerme della sua vita, più che a un codice rivisto e aggiornato, sono simili a quel «rumore» (1Re 18,41) che Elia percepisce sul monte Carmelo e che annuncia la fine di una lunga e penosa siccità. Bisogna riconoscere che le parole rivolte dal Signore Gesù ai suoi discepoli e alla folla sul monte delle Beatitudini sono una benefica «pioggia torrenziale» che rinfresca e dà sollievo in un’atmosfera che invece rischia di essere soffocante e mortificante. Il profeta Elia, dopo aver invocato il fuoco per consumare l’olocausto sul monte Carmelo, ora si fa annunciatore di una pioggia che restituisca alla terra la speranza di far germogliare la vita. Con un’immagine suggestiva, il testo ci dice che: «La mano del Signore fu sopra Elia, che si cinse i fianchi e corse davanti ad Acab finché giunse ad Izreèl» (1Re 18,46). Il Signore Gesù, nella forza di Elia, con le sue parole ci precede e ci guida in una comprensione delle Scritture che supera e si pone «davanti» alle ribadite interpretazioni della tradizione per avanzare in una comprensione sempre più consona al cuore di Dio. Come Elia «corse davanti» al carro di Acab, così il Signore Gesù sempre ci supera come in una corsa appassionata non per lasciarci indietro, ma per spronarci a non rassegnarci in un’interpretazione delle Scritture che rischia di essere arida e infeconda. Il primo passo del modo nuovo con cui il Maestro riprende la tradizione di sempre è l’ordine con cui evoca le dieci parole. Quest’ordine è già assai significativo perché, piuttosto che privilegiare l’asse verticale della relazione con Dio, pone prima e davanti quella orizzontale che si vive tra fratelli e sorelle in umanità: «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello» (Mt 5,22). Il «davanti» di Elia diventa un «prima» assoluto nell’insegnamento del Signore Gesù: «va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,24). La parola del Vangelo è come «il rumore di pioggia torrenziale» (1Re 18,41) avvertito da Elia e che esige di lanciarci in un cammino che è una vera corsa di dilatazione del cuore e della mente, per compiere scelte sempre più rinfrescanti e feconde di umanità. Perché questo possa avvenire è necessario ritornare «sette volte» (18,43) a guardare lontano verso il mare, cioè dentro al nostro cuore, per scorgere e interpretare i segni e i cenni che invitano alla conversione.

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Beata quotidianità

La prima lettura ci offre un’originale chiave d’ingresso per il discorso della montagna, che il Signore Gesù inaugura con le Beatitudini. Mentre il re Acab comincia a fare il male agli occhi del Signore, prendendo in moglie Gezabele, e permettendo ai suoi culti pagani (Baal) di entrare liberamente nei costumi del regno di Israele, Elia si trova costretto a decretare che ciò non sarà privo di conseguenze. «Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo comanderò io» (1Re 17,1). Costretto poi a fuggire e a nascondersi presso un torrente — per non incappare subito nelle ire del re e della nuova regina — Elia fa la scoperta che i luoghi d’esilio possono trasformarsi in territori di benedizione, dove si sperimenta la provvidenza. In altre parole, scopre che la via verso la felicità non passa necessariamente — anzi! — attraverso il consenso e la soddisfazione dei più istintivi bisogni.  «Berrai dal torrente e i corvi per mio comando ti porteranno da mangiare» (1Re 17,4). Su questa scia, il vangelo delle beatitudini viene a strapparci dal triste inganno di una cultura che continua ad affermare che per toccare il cielo con un dito — per essere felici — bisogna occupare un prestigioso ruolo sociale, conquistare gratificazioni e riconoscimenti attraverso gli strumenti del possesso e del potere. Le Beatitudini proclamano invece che la strada verso una vita piena non sta fuori, ma esattamente nelle circostanze in cui noi — come tutti — sempre torniamo a trovarci. Ci assicurano che non è vero che siamo tutti destinati alla felicità. È piuttosto vero il contrario: la felicità è destinata a noi, da sempre, da Dio nostro Padre. La chiave della gioia autentica non sta in cima ai nostri desideri frustrati, ma in fondo alla consapevolezza di quello che siamo. Le Beatitudini sono l’invito ad accogliere quello che ciascuno si ritrova a essere e a patire con gratitudine, rifiutando l’illusione che la vita possa cambiare per l’intervento di qualcosa di esterno e di estraneo a noi stessi. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). La povertà di spirito è l’attestazione che la realtà, così com’è, può diventare luogo e modo di felicità, l’invito a credere che non esiste altro che possa rendere felici se non quello che si è e quello che la vita ci permette di essere. Da questa consapevolezza, possono nascere sentieri nuovi e inaspettati. Quelli in cui sperimentiamo che è possibile essere in una profonda pace — gioire — proprio là dove non ce lo aspettavamo. Là dove tutto sembra remare contro. Dove molte cose importanti non ci sono (ancora). Ma il necessario non manca. «I corvi gli portavano pane e carne al mattino, e pane e carne alla sera; egli beveva al torrente» (1Re 17,6).

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Il peccato genera paura

Il pervertimento delle relazioni buone o che tali dovrebbero essere: questa è una pista di lettura che attraversa sia il passo dell’Antico Testamento (Gen 3,9-15) che il Vangelo (Mc 3,20-35). Nel testo della Genesi la figura del serpente dà forma a sentimenti ed emozioni interiori degli umani che vanno dal sospetto alla frustrazione, diventano sogno e gesto di liberazione da un Dio non più sentito come presenza amica e protettrice, ma come padrone geloso e dispotico (cf. Gen 3,1-7) e infine rivelano il loro carattere illusorio generando paura e vergogna nell’uomo che si nasconde da Dio e che incrina la propria relazione con la donna accusandola e sfuggendo all’assunzione di responsabilità. A sua volta la donna si deresponsabilizza mediante il meccanismo dell’autogiustificazione e dell’accusa rivolta ad altri da sé (Gen 3,9-15). Ormai la fiducia tra umani e Dio è infranta, la relazione tra uomo e donna è minata dalle dinamiche di autogiustificazione e di colpevolizzazione dell’altro e l’Eden, il giardino cintato, il paradiso (parádeisosparadisus) in cui Dio aveva posto gli umani (Gen 2,15) diventa un carcere da cui evadere. Il paradiso viene sentito come inferno. La gratuità del dono viene percepita come insopportabile intrusione e oppressione. Nel testo evangelico Gesù esperimenta l’ostilità del suo ambiente famigliare che lo giudica “fuori di sé” (Mc 3,21) e che porta i suoi componenti, tra cui anche “sua madre” (Mc 3,31), a cercare di fermarlo e impedirgli il genere di vita che aveva intrapreso. Ma Gesù conosce anche l’opposizione del proprio ambiente religioso. L’incomprensione della sua persona e della sua azione accomuna i famigliari di Gesù e le autorità religiose ebraiche: se i suoi famigliari lo giudicano pazzo, gli scribi lo accusano di essere indemoniato (Mc 3,22). Il vangelo mostra un Gesù che ormai è divenuto un uomo pubblico: la sua attività di predicazione e di cura riscuote successo e richiama molta folla sicché lui e i suoi discepoli non hanno neppure il tempo di mangiare. Senza dubbio, il carattere inusuale del genere di vita itinerante con una piccola comunità di seguaci e le condizioni disagiate che tale vita comporta per Gesù stesso, sono motivo di preoccupazione per i membri del suo clan famigliare. Ma vi è certamente dell’altro. L’ostilità e il giudizio duro dei famigliari di Gesù sono il riflesso reattivo di un aspetto delle sue scelte: la sua vita itinerante e celibataria con una piccola comunità di discepoli danneggia economicamente la famiglia che si vede privata non solo di un suo membro, ma anche dei vantaggi economici e del prestigio sociale che l’alleanza con un altro gruppo famigliare, garantita da un matrimonio, avrebbe comportato. Ma Gesù vive con radicalità la sua appartenenza a Dio (“Tu sei il mio Figlio”: Mc 1,11) e compie la sua volontà a ogni costo (“Non ciò che voglio io, ma ciò che tu vuoi”: Mc 14,36) e questo gli consente di assumere le ostilità dei famigliari e anche delle autorità religiose – queste ultime particolarmente preoccupate anche dalla popolarità crescente di cui Gesù godeva – come conferme del suo cammino. Le inimicizie dei famigliari non agiscono su di lui come ricatto affettivo e le ostilità delle autorità religiose non lo intimoriscono né lo inducono a tornare indietro. Leggendo la sua vicenda non psicologicamente, ma alla luce delle Scritture, Gesù sa che il giusto può conoscere l’avversione e l’opposizione dei famigliari e delle autorità religiose (cf. Gen 37,12ss.; Sal 69,9; Zc 13,6): non era questo il destino dei profeti? Va sottolineata la dimensione pubblica, esposta, visibile, del tipo di vita di Gesù. Questo suscita preoccupazione e incomprensione da parte della sua famiglia e delle autorità religiose che si trasforma in giudizio, critica, condanna, calunnia. E spesso il giudicare e il condannare, lo sparlare e il calunniare sono misure di difesa da ciò che potrebbe costringere a ripensare se stessi e a rimettersi in causa oppure ad accedere a una conoscenza rinnovata di colui che si ritiene di conoscere già. Il prosieguo del vangelo mostrerà che ciò che Gesù vive sulla propria pelle, lo annuncerà anche come possibilità per i suoi discepoli: inimicizie da parte dei famigliari (cf. Mc 13,12-13) e da parte di autorità religiose e politiche (cf. Mc 13,9). Il credente deve ricordare che inimicizie e opposizioni fanno parte della promessa del Signore: il centuplo che Gesù ha promesso a chi lo segue lasciando tutto, viene donato “insieme a persecuzioni” (Mc 10,30). Dunque, nessuna illusione: seguire Cristo non significa una vita esente da negatività e opposizioni. Anche se la reazione del credente che si trova calunniato (come qui lo è Gesù), osteggiato proprio dalle persone e negli ambienti che più dovrebbero mostrargli vicinanza, potrebbero portare il credente a sentire come irricevibili e inammissibili tali situazioni e a elaborare pensieri di abbandono. Opposizioni anche inspiegabili, inimicizie improvvise, persone che da amiche si rivelano nemiche, potranno certamente accompagnare il cammino del credente, ma non potranno divenire causa di abbandono: sono state vissute da Gesù e fanno parte della promessa di Gesù. Di fronte ai famigliari che lo giudicano pazzo, “fuori di sé”, e vogliono farlo uscire fuori dalla casa in cui si trova, Gesù afferma che nella sua nuova famiglia, nella comunità dei credenti, il criterio di prossimità non è dato dai legami di sangue, ma dal fare la volontà di Dio (Mc 3,35). L’appartenenza alla comunità di Gesù non ha altro criterio che il fare la volontà di Dio: non vi sono privilegi, appartenenze di diritto o acquisite una volta per tutte, ma l’appartenenza a Dio avviene solamente tramite l’ascolto della parola di Dio che conduce a rinnovare ogni giorno la fedeltà alla volontà del Padre. Per cui ci possiamo senz’altro porre la domanda: chi è dentro e chi è fuori? L’essere nella chiesa, magari anche in modo visibile e pubblico, non va necessariamente di pari passo con la fede e con il fare la volontà di Dio. Il giudizio finale illuminerà ciò che nell’oggi può restare opaco e nascosto. L’appartenenza ecclesiale e anche la pratica sacramentale non sono assolutamente garanzie di salvezza: questo lo afferma Gesù nei vangeli (Mt 7,21-23; Lc 13,26-27) e lo ribadisce Agostino in un celebre passo del De civitate Dei (I,35): “La città pellegrina di Cristo si ricordi che sicuramente fra i suoi avversari si nascondono dei futuri suoi concittadini e non ritenga vano sopportare presso di loro l’ostilità, finché non li raggiunga come credenti; allo stesso modo, fra quelli che la città di Dio porta anche con sé, ad essa legati nella comunione sacramentale, finché è pellegrina nel mondo, alcuni non li avrà con sé nella condizione eterna dei santi; questi sono in parte noti, in parte ignoti e non esitano a mormorare contro Dio, con cui sono uniti per mezzo dei sacramenti, fino a riempire una volta i teatri assieme agli altri, una volta le chiese assieme a noi. Ma persino della correzione di alcuni di questi non si deve assolutamente disperare, perché presso chi ci è apertamente contrario si nascondono dei futuri compagni, anche se tuttavia essi non ne sono consapevoli”. Insomma, se “sappiamo dove la chiesa è, non sappiamo dove essa non è” (Tomáš Halík). Nei vv. 22-30, troviamo la controversia tra la delegazione ufficiale degli scribi inviati da Gerusalemme e Gesù. In questione vi è l’attività esorcistica di Gesù e l’origine del potere di cui Gesù si serve per cacciare i demoni. Anzitutto va rilevato che anche gli avversari di Gesù riconoscono che Gesù realmente scaccia demoni, ha potere su di loro. Tuttavia essi affermano che Gesù fa questo in nome del principe dei demoni. Gesù avrebbe ricevuto dal “demone capo”, Beelzebùl, potere di scacciare i demoni inferiori. Questa interpretazione è smentita dai demoni stessi che invece confessano rettamente Gesù riconoscendolo come “il santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio di Dio” (Mc 3,11), “Figlio del Dio altissimo” (Mc 5,7). Se l’argomento di cui si parla, tratto dalla complessa demonologia dell’epoca, ci appare distante, ci è certamente più familiare il meccanismo di delegittimazione dell’altro, di stravolgimento della realtà al fine di distruggere una persona, la pratica della diffamazione, la menzogna, che si accompagnano alla certezza (esibita) di possedere la verità, di sapere. Gesù anzitutto reagisce facendo propria l’argomentazione dei suoi accusatori e smontandola: se Satana scaccia Satana allora “è finito”. La divisione si è introdotta nel suo regno: il divisore crolla perché diviso esso stesso. In verità, e ora Gesù presenta la sua interpretazione, Satana ha fine perché ha incontrato uno più forte di lui. Gesù è il più forte annunciato dal Battista (Mc 1,7) che instaura i tempi escatologici e dà inizio al Regno di Dio. Cogliamo così il senso dell’annotazione dell’evangelista che afferma che Gesù risponde agli scribi parlando loro “in parabole” (Mc 3,23): al cuore delle parabole vi è la rivelazione del Regno di Dio. Qui, questa buona notizia viene annunciata attraverso l’annuncio della sconfitta del regno di Satana. Infine Gesù denuncia con durezza l’opera di stravolgimento della verità proclamando la non remissibilità della bestemmia contro lo Spirito santo. Ovvero, chi non riconosce l’azione dello Spirito – e lo Spirito è la fonte del perdono – si esclude da se stesso dal perdono misconoscendone e disprezzandone la sua origine.

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Noi, come una moneta

L’apostolo Pietro sembra essere radicalmente fiducioso: «Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). Il breve racconto che viene oggi evocato dal Vangelo ci mette di fronte a un Gesù in cui abita un senso di «giustizia» che non sfugge nemmeno ai suoi nemici, i quali «rimasero ammirati di lui» (Mc 12,17). Eppure sembra che non basti l’ammirazione a colmare quel fossato che si è creato nel cuore di quanti ormai sembrano aver smarrito quell’immagine di Dio che pure è impressa – per il dono della grazia attraverso i doni della natura – nel cuore di tutti. Potremmo intendere la risposta del Signore rivolta a ciascuno di noi e riguardante la nostra stessa vita: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo» (Mc 12,15). Siamo richiamati a guardare noi stessi come fossimo una moneta, per cercare di capire che cosa riusciamo a dire di noi stessi e, soprattutto, in relazione a chi progettiamo e spendiamo la nostra vita. Un testo di un monaco medievale, Guglielmo di St. Thierry, può aiutarci a ripensare la nostra realtà di creature chiamata a non perdere la memoria di se stesse: «Ecco che il vaso di porcellana sfugge dalla mano di colui che l’ha impastato; sfugge dalla mano che lo tiene e lo porta. Se gli succedesse di cadere dalla tua mano, sarebbe un disastro, perché si romperebbe in mille pezzi, si ridurrebbe a nulla. Egli lo sa, e per tua grazia non cade. Abbi pietà, Signore, abbi pietà: tu ci hai modellati, e noi siamo argilla (Ger 18,6; Gen 2,7). Fin qui restiamo fermi, fin qui la mano della tua forza ci porta; siamo sospesi alle tue tre dita, la fede, la speranza e la carità, con le quali sostieni la massa della terra, la solidità della tua santa Chiesa. Abbi compassione, sostienici; la tua mano non ci lasci cadere. Raffinaci al fuoco dello Spirito Santo il cuore e la mente (Sal 26,2); consolida ciò che in noi hai modellato, affinché non ci disgreghiamo e non ci riduciamo all’argilla che eravamo o al nulla». La preghiera è forse la scuola in cui siamo chiamati ogni giorno a ripulire la moneta della nostra vita perché sia veramente capace di favorire lo scambio e l’incontro, piuttosto che essere motivo di opposizione e di oppressione. Se sapremo sempre meglio «di chi» (Mc 12,16) siamo e a chi vogliamo realmente assomigliare, allora la nostra vita potrà conoscere uno splendore inimmaginato eppure assolutamente riconoscibile. Il primo passo che ci viene richiesto è quello di fare verità: in realtà il solo fatto che i notabili abbiano una moneta romana dice chiaramente che si servono della moneta della nazione occupante e così ne accettano, in realtà, l’amministrazione e il dominio con tutte le angherie che ciò comporta, soprattutto per i più poveri. Allora risuona ancora più forte l’esortazione dell’apostolo: «Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia» (2Pt 3,14)!

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Domande a Gesù

Il Signore Gesù non ha paura delle nostre domande! Il Signore Gesù non ha nessun timore a porci delle domande attraverso cui cerca di portarci un poco oltre le questioni che rischiano di occupare il nostro cuore senza, in realtà, essere in grado di darci quella pace che nasce non dalla conoscenza teorica ma dall’esperienza di una relazione sempre più vera e autentica. La provocazione dei notabili suona così: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?» (Mc 11,27-28). Già il modo di porre la domanda rivela quale sia il centro dell’attenzione e delle preoccupazioni dei capi dei sacerdoti di ogni tempo e di ogni luogo: il problema dell’autorità, che viene posto nella segreta speranza di dare alla propria autorità un fondamento inviolabile e inattaccabile. La risposta del Signore Gesù è un interrogativo ancora più grande e sicuramente meno teorico e più esistenziale: «Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi» (11,30). Chiaramente il Signore Gesù si rifà alle tecniche rabbiniche per non cadere nel tranello che gli viene teso, ma non si accontenta di questo, perché costringe i capi dei sacerdoti a uscire allo scoperto con se stessi, dovendo accettare di non essere assolutamente in grado di uscire allo scoperto con gli altri: «temevano la folla» (11,32)! Senza colpo ferire e senza cadere nella trappola che gli è stata tesa, Gesù costringe i notabili del popolo a prendere coscienza del fatto che, in realtà, ciò che più li interessa è non di sapere da dove viene l’autorità del rabbi di Nazaret, ma di conservare il più possibile la propria autorità, che non si piega nemmeno alla parola del «profeta» che, invece, è unanimemente riconosciuto dal popolo. La conclusione della diatriba è il silenzio di Gesù su quelle che sono questioni di scuola attraverso cui si cerca di far prevalere il proprio interesse facendo finta di avere a cuore la verità. Questo “silenzio dogmatico” del Signore è un insegnamento preciso e da non dimenticare mai, per non cadere nella trappola che tiene prigionieri i capi dei sacerdoti tanto da farli ricorrere – in preda alla paura – all’arma del tranello. In questo caso vale la complessa esortazione dell’apostolo: «Siate misericordiosi verso quelli che sono indecisi e salvateli strappandoli dal fuoco; di altri infine abbiate compassione con timore, stando lontani perfino dai vestiti, contaminati dal loro corpo» (Gd 22-23). Esortazione dura dall’apparente sapore così poco evangelico e che pure rappresenta una vera via di fuga da tutto ciò che rischia di incastrarci e di incatenarci in perniciose questioni di principio, in cui si annida il tarlo dell’amore di noi stessi, che ci induce a conservare e a rafforzare i nostri piccoli e talora ridicoli poteri. Del resto, se c’è un’autorità che viene da Dio è quella che ci porta sempre più generosamente verso una pienezza di dono: «Costruite voi stessi sopra la vostra santissima fede, pregate nello Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna» (Gd 20-21).

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Imparare a gridare bene

Vi è un grido che si leva da sempre dal più profondo della nostra umanità: è il grido del bambino, è lo spasimo del morente, è l’esultanza degli amanti. Vi è qualcosa che la nostra carne e la nostra anima concordemente invocano, evocando così a se stesse la propria origine e il proprio anelito. Mentre il cammino di Gesù nel vangelo di Marco volge alla sua conclusione pasquale, ecco che Bartimeo si fa portavoce – lui che è cieco come un bambino appena nato – di tutta la nostra umanità assetata di vita e di senso, e lo fa con un grido che qualcuno cerca di zittire e che, invece, si fa più forte: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e ancora «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» (10,48). Bartimeo nella sua cecità avverte il passaggio di quella «luce meravigliosa» (1Pt 2,9) da cui si sente chiamato e da cui vuole sia rischiarata e illuminata la sua vita. È come quando a occhi chiusi sentiamo un raggio di sole che risplende sul nostro volto in una fredda giornata d’inverno: tutto cambia e, soprattutto, tutto può cambiare. Questa è la grande percezione di Bartimeo che si fa annuncio per ogni uomo: quando Gesù passa e se Gesù passa nella nostra vita tutto cambia, tutto può cambiare. «Eccola la mia purificazione, la mia fiducia e la mia giustizia: la contemplazione della tua bontà, Signore buono! Tu, mio Dio, hai detto alla mia anima, come sai fare: «La tua salvezza, sono io» (Sal 34,3). Rabbunì, sovrano Maestro e insegnante, tu l’unico medico capace di farmi vedere ciò che desidero vedere, di’ al tuo mendicante cieco: «Che vuoi che io ti faccia?» E sai bene, tu che mi dai questa grazia…, con quale forza il mio cuore ti grida: «Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26,8)». In realtà nessuno aveva mai visto quell’uomo cieco. Gesù ha talmente occhi per quest’uomo da restituire la facoltà di vedere, dandogli finalmente la possibilità di chiedere in verità e semplicità dal profondo del suo essere e del suo bisogno: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51). L’ascolto di Gesù apre gli occhi dopo aver aperto il cuore alla fiducia che viene riconosciuta e indicata come «fede» (10,52) che salva ciascuno di noi come le braccia e il seno nutrice di una madre salva da morte certa «i bambini appena nati» (1Pt 2,2) che, a differenza degli altri animali, non sanno trovare da sé la strada della vita e rischiano così la morte.

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Il nostro posto

La domanda dei «figli di Zebedeo» (Mc 10,35) contrasta tremendamente non solo con l’insegnamento del Signore Gesù che diventa sempre più chiaro ed esigente, ma pure con quanto l’apostolo Pietro evoca nella prima lettura: «rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23). Il seme che portiamo dentro di noi, come premessa e promessa di una pienezza di vita, non è quello dell’illusione di poter fondare la nostra esistenza su dei privilegi, ma è quello dell’apertura a condividere la stessa sorte del nostro Maestro e Signore «agnello senza difetti e senza macchia» (1,19). Giacomo e Giovanni chiedono al Signore Gesù una sistemazione sicura e ben stabile: «uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Mentre pongono questa domanda non si rendono conto di come il loro desiderio di sedentarizzazione gloriosa contrasti con quell’incessante e deciso camminare di Gesù «davanti ai discepoli» che «lo seguivano» ed erano «impauriti» (10,32) per questo deciso salire a Gerusalemme. In realtà sembra proprio che la domanda dei due discepoli sia un modo per nominare e tenere sotto controllo la paura che attanaglia il cuore di tutti, e diventa per il Signore l’occasione per chiarire ulteriormente quale sia il cammino che li aspetta. Esso non può essere rimandato alla Pasqua, ma comincia sin da subito e ricomincia ogni mattina, facendo di ogni giorno un’occasione per inoltrarsi più decisamente nelle vie e nei modi del Signore: «chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,44). Si può ben capire lo sconcerto dei discepoli, che è in tutto simile alla nostra difficoltà ad accogliere la logica della strada, continuamente rinnovata dall’adesione alla parola del Signore. L’apostolo Pietro concluderebbe così: «E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato» (1Pt 1,25). Sembra che il Signore faccia di se stesso, unitamente ai suoi discepoli, una vera e propria parabola: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme…» (Mc 10,33). Dietro al Signore Gesù bisogna camminare, non ci si può accomodare! Questo incessante viaggio rimanda non solo al cammino che facciamo sulle strade dei nostri incontri, ma soprattutto a quei viaggi interiori che ci mettono in condizione di imparare qualcosa di noi stessi, fino ad accettare che la vita non sia una scalata nella corsa degli onori e nella ricerca delle glorie – fossero pure glorie spirituali – ma una serena discesa verso il solco segreto della terra. Così, nonostante sembrino agli antipodi, il simbolo – peraltro evocato spesso nelle parabole da Gesù – del «seme corruttibile» (1Pt 1,23) è quello più eloquente per indicare il modo di stare accanto al Signore fino ad accettare di marcire nella terra per crescere verso il cielo senza fare rumore, ma con un immenso amore.

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I nostri possessi

L’esperienza del giovane che, pur cercando di avere in eredità «la vita eterna» (Mc 10,17), è costretto ad andarsene col volto «scuro» (10,22) e la tristezza nel cuore, ci svela fino a che punto è possibile essere sinceramente alla ricerca del volto di Dio eppure incapaci di accoglierlo nella carne umana del suo Verbo: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,22). Pur essendo fedele ai precetti e alle regole della tradizione religiosa ebraica, quest’uomo non appare disposto a lasciare un tesoro di meriti e di sicurezze per avventurarsi nella sequela di Cristo. Del resto, osservare i comandamenti non è garanzia di un cammino di verità nell’amore. Molta della nostra coerenza morale e delle nostre virtù — che amiamo offrire allo sguardo degli altri — è solo il risultato del nostro sforzo, non il frutto buono e maturo che la grazia di Dio è riuscita a creare in noi. Forse questo tale si aspettava un «Maestro» più «buono» nei suoi confronti, cioè più santo ed esigente degli altri, per avere il privilegio di poter far parte della cerchia dei suoi discepoli. Il Signore Gesù si pone a lui, invece, come un Maestro singolare, che non promette alcun accrescimento di meriti ma propone la possibilità di assumere pienamente la propria personale povertà: «Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (Mc 10,21). I momenti «vocazionali» della nostra vita, quando siamo chiamati o richiamati alla sequela, non sono quelli in cui ci sentiamo benefattori nei confronti di Dio e degli altri, ma quelli in cui siamo improvvisamente spogliati dei nostri meriti presunti e restituiti alla nostra originaria povertà. Essere discepoli non significa affatto accumulare risultati e raggiungere traguardi, ma accogliere e ricambiare quell’amore con cui il Signore, continuamente, ci guarda e ci chiama: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Di fronte a questa iniziativa, non sono le cose che ci mancano il vero ostacolo, ma proprio quelle che stringiamo con forza tra le mani e che ci impediscono di gustare la gioia di non avere nulla da offrire se non noi stessi. Per uscire da questo recinto che costruiamo attorno ai nostri possessi, non esiste altra strada se non quella della purificazione del cuore che, sempre, si compie attraverso l’immersione di quello che siamo nelle acque della realtà e della storia, in cui la nostra vita si gioca non nell’illusione dell’individualismo, ma nella grazia di una comunione sempre da cercare e desiderare. L’apostolo Pietro trova le parole migliori per illustrare questo lavorio con cui la grazia opera dentro di noi per liberarci da ogni tentazione di chiudere la nostra vita, anziché aprirla alla relazione con Dio e con i fratelli. Il dinamismo che ci trasforma e ci libera è sempre quello della Pasqua, nei confronti del quale dobbiamo essere disposti a morire a noi stessi per rinascere in una vita più grande: «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (1Pt 1,6-7). L’amore per Dio e per i fratelli non si costruisce dentro un robusto e inossidabile edificio di sicurezze, ma nei confini tenui e miti di una «speranza viva» (1,3). Dobbiamo solo accettare che il «cammello» (Mc 10,25) della nostra piccola paura travestita da gigante passi con docilità attraverso «varie prove» (1Pt 1,6), per diventare agile come un filo sottile, capace di passare negli spazi stretti della realtà quotidiana, e di cucire relazioni e situazioni ormai lacerate, ma sempre recuperabili attraverso la «potenza di Dio» (1,5), che rende «tutto possibile» (Mc 10,27).